La visita
Ieri sono andato a trovare la mia vecchia mamma ricoverata in una struttura per anziani affetti da Alzheimer. È stato uno strano incontro al quale ho voluto dare un significato diverso, nuovo, utile per la mia vita.
Dopo un colloquio senza senso, quasi divertente, mi ha guardato con i suoi occhi opachi al di là dei quali la nebbia dell’oblio la fa da padrona e con un tono deciso mi ha chiesto:
Silenzio.
Mi aspettavo di tutto tranne questa domanda; più intelligente di quanto si possa pensare soffermandosi solo alla logica banale della mente critica. Aveva la forza destabilizzante di uno tsunami poiché pronunciata da una madre ad un figlio.
A freddo, mi sono chiesto se non fosse una domanda rivolta a sé stessa, ma la sua comunicazione non verbale scioglieva istantaneamente questo dubbio. Lei era centrata; la domanda era per me.
Ho scelto che diventasse un regalo per me.
Il tempo
Poi il pensiero è andato velocemente in un’altra direzione.
Che non fosse solo un modo per dirmi qualche verità sulla vita?
Forse, quando si avvicina il capolinea, ci si rende conto che la vita non è poi così importante?
Una sequenza di momenti composti da pensieri e azioni a volte troppo sconnessi fra loro; a volte troppo rigidi e resistenti allo scorrere naturale del flusso; a volte troppo attaccati ad abitudini che impediscono di fissare in una fotografia l’inconsapevole dinamicità di quella dimensione che erroneamente chiamiamo Tempo.
Il tempo è un processo non si può simboleggiare e nominalizzare. Non si può fissare,
Il tempo dovrebbe essere un verbo non una parola. Voce del verbo Tempo.
Forse hanno ragione gli Amondawa. I membri di questa tribù amazzonica non hanno, fra i propri vocaboli, nessuna parola per descrivere il tempo e nemmeno sanno concettualizzarlo astrattamente.
Lo vivono e basta.
Ho concluso l’incontro salutandola e baciandola. Pensando al poco tempo che le ho dedicato negli ultimi anni della malattia, l’ho rassicurata sulla mia intenzione di non farla finita.
Lei non aveva bisogno di essere rassicurata e io mi sono sentito come uno che risponde ad una domanda intelligente in modo stupido.
Il sogno
Durante la notte un sogno mi aiuta a capire.
Mi trovavo in mezzo a persone avide che si azzuffavano sul mio cibo per quanto ce ne fosse in abbondanza intorno a noi. Volevano il mio ed io non ero disposto a cederlo, nonostante la tavola fosse imbandita di ogni ben di dio.
Io ero come loro: ingordo e avido.
L’aggettivo possessivo riferito ad una risorsa illimitata è sintomo di uno schema di pensiero egoistico e poco funzionale.
Cosa se ne fa uno del suo cibo, se attorno a lui c’è l’abbondanza. Il cibo serve per nutrirsi e identificarlo come mio quando è nel piatto è stupido e non ha senso se ne puoi trovare ovunque tutto intorno a te.
È tuo quando nello stomaco si trasforma e diventa parte di te, almeno in parte.
Allora ho capito.
Sì! Mamma, ho capito. Ora mi uccido.
Uccido quella parte di me che si appiccica morbosamente alle cose, alle idee e alle situazioni.
Uccido il pensiero che mi separa dagli altri e dall’universo.
Uccido tutte le barriere di protezione che mi isolano dalla parte profonda della realtà.
Uccido il ricordo che mi rende dipendente.
Uccido il senso del possesso quando non è utile.
Uccido l’incapacità di dare valore alle cose quando sembrano prive di significato.
Uccido tutto il bagaglio pesante che mi porto sulle spalle durante un viaggio in cui ho bisogno di essere veloce, leggero e flessibile.
Uccido l’ego solo quando non collabora ad un disegno più grande di lui.
Uccido tutte le parti di me che non servono, dopo averle riconosciute, accettate e salutate benevolmente.
Mi uccido, ora.
Grazie Mamma… ti voglio bene.
[…] ritrovata nell’ultima stretta di mano di mia madre quando se ne è andata con il corpo, mentre la mente l’aveva abbandonata dieci anni […]