Non ho mai cagato in un secchio…
…fra le pareti arrugginite di un vecchio furgone scalcinato.
Non mi sono mai fatto sorprendere da uno stimolo così impellente che la necessità corporea vincesse ogni pudica resistenza da indurmi a defecare in un contenitore di plastica, lasciando campo al fetido odore della realtà.
L’ha fatto, invece, Frances Mc Dormand, interpretando Fern, la donna nomade senza casa, in una scena del Film Nomadland.
La scena è poco poetica e ha ribaltato completamente l’ispirazione romantica di una vita ai margini della società che mi aveva regalato la lettura dell’omonimo libro (dal quale è stato tratto il film).
Il libro inchiesta tratta di una nuova generazione di poveri, nomadi e anziani che vaga nei vasti spazi degli Stati Uniti con mezzi di fortuna fra un impiego precario nei magazzini di Amazon e la raccolta delle barbabietole in Nebraska.
Sono persone, perlopiù a fine carriera. Reduci da una vita normale che a causa di un divorzio, un fallimento o semplicemente una cattiva gestione del fondo pensione si sono trovati in mezzo ad una strada da un giorno all’altro.
Sono individui collocati ai margini del sistema di produzione-consumo della società che decidono di ritagliarsi una vita diversa, più libera, più ricca nelle relazioni ma necessariamente costrette a rinunciare a qualcosa.
Non molto lontano da quello che ho visto succedere e potrebbe succedere sempre più spesso anche in Italia. I media e la politica certificano una ripresa economica da più 6 % del PIL, ma gli effetti concreti latitano nel nulla. Le file di indigenti alle mense gratuite sono sempre più lunghe. Sei milioni di poveri in Italia ci sono e nella situazione odierna potrebbero aumentare notevolmente in questo 2022 distopico al quale ci stiamo affacciando.
Quando l’ho letto mi sono immedesimato nella vita avventurosa e reale della protagonista. Un racconto a cavallo tra l’orgoglioso atteggiamento del clochard auto-esiliatosi dal sistema e l’inclinazione un po’ più romantica del cavaliere errante.
L’elegia della ribellione
Nel libro si respirava una poetica tutta particolare:
- il viaggio come aspetto paradigmatico della vita, restituisce alla memoria valori della beat generation degli anni 50, come il rifiuto del materialismo e delle norme imposte dalla collettività;
- l’indipendenza finanziaria accompagnata da minimalismo e riuso come simbolo di una ritrovata indipedenza dalla tribù sociale e dai suoi consumi insostenibili.
- la presa di coscienza esistenziale della donna e dell’uomo, alla ricerca di verità e pienezza attraverso l’introspezione, facilitata da una vita solitaria e autosufficiente.
insomma, un modo alternativo di vivere lontano dal cliché del nonno-umarel che pedala in bicicletta col nipote appresso alla ricerca di piccioni da sfamare e cantieri da osservare.
Nel racconto della scrittrice giornalista c’era l’idea di una vita diversamente soddisfacente. Una specie di patria degli spiriti liberi, coraggiosi e con una particolare attitudine a ritrovare la propria dignità. Persone che quella dignità l’hanno riconquistata e arricchita di contenuto, proprio nella fase finale della loro esperienza terrena.
Le parole scritte sulla carta hanno colpito la mia fantasia. Quest’idea mi ispirava a fantasticare sul futuro, attirato dagli aspetti più lirici.
Come dire: se il sistema di potere, la politica e, a quanto pare anche l’informazione, non fanno nulla per rendere più umana la vita degli uomini, intenti come sono a difendere la roccaforte economica al di sopra di tutto e di tutti, io me ne vado.
Rinuncio, più nolente che volente, all’insipida vita da villetta a schiera di periferia e parto per un
“viaggio pericoloso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti”
(come recitava la ricerca di personale del Capitano Shackleton per il suo viaggio nei ghiacci del polo Sud).
Salto giù da quella barca malata e malandata che è la società con un furgone scalcinato, come scialuppa di salvataggio. Vado alla ricerca di un’altra vita più incline alla solidarietà, all’etica delle interazioni umane e con più tempo da dedicare a cose concrete.
Questo era il sapore sognante che mi aveva instillato il libro.
Cagare in un secchio: dal sogno al fetido puzzo della realtà
La narrazione cinematografica però mi ha scaraventato di fronte alla drammaturgia del quotidiano che scaturisce dalle scelte estreme dei nuovi nomadi.
Fern, la protagonista, rinuncia ad ogni compromesso e la sua figura sembra incompiuta come il viaggio che percorre. Il prezzo che paga per la sua riconquistata libertà di movimento appare veramente troppo alto e a volte incomprensibile.
Più perdite che ritrovamenti, più solitudine che relazioni vere, più lacrime che risate, è il triste bilancio della sensazione che mi ha lasciato il film.
Anche il senso di comunità sembra appannato in questo racconto cinematografico. I girovaghi senza casa (come amano definirsi) si ritrovano nel deserto o nei parcheggi di Amazon, fanno corsi di sopravvivenza tutti insieme e riunioni periodiche. Ma poi si lasciano, ognuno per un percorso solitario e indipendente. Ogni addio non è mai definitivo e la strada verso la verità di ciascuno è comunque un cammino senza sentieri condivisi. Come se ognuno di loro non volesse correre il rischio di aderire a nuove convenzioni, a qualche forma di comoda abitudine che porta con sé, sempre, un conto da pagare.
Durante la visione del film, una vocina dentro di me avrebbe voluto chiedere a Fern (Frances Mc Dorman), ammalata e infreddolita, sola e abbandonata dentro al van, mentre la faceva nel secchio in preda ai crampi:
- perché non sei scesa a compromessi con il sistema?
- Perché non adeguarsi a quel minimo di partecipazione che ti era richiesto dalla comunità civile?
In questo modo avresti potuto evitare tutta quella solitudine e magari anche l’esperienza degradante di cagare nel secchio!
Una voce ancora più forte rispondeva a me stesso in questo modo:
Se tu, caro Francesco, impari ad accettare l’isolamento, la discriminazione, le difficoltà di una vita indipendente e a cagare nel secchio non avrai più bisogno di scendere a compromessi e di servire nessuno.
Se impari a cagare nel secchio puoi essere finalmente libero.
[…] Una di queste ispirazioni è incarnata, per me, dalla figura di Drugo (**) nel “Il grande Lebowski”. Il modo unico e disincantato di atteggiarsi e gestire il potere personale di questo personaggio mi ha affascinato. Si tratta di un esempio perfetto di anarchico anti-eroe in contrasto con il comportamento ordinario e psicotico di cui è assuefatta la collettività. […]
[…] la carne e il sangue, lo sterco e il profumo di […]
[…] questo ringrazio, benedico intimamente e accolgo, tutte le relazioni umane più complicate della mia vita, senza le quali crederei di essere qualcuno o […]