1. ci sono fatti che non puoi ignorare
Ieri ho visto un documentario: “Gaza: doctor under attack”.
Non era un film, ma sembrava più crudele di qualsiasi horror.
Lì la morte non si presenta sul fronte come in una guerra. Non avanza da un bunker o da una trincea: ti sorprende al mercato, ti coglie mentre cammini sul marciapiede o aspetti il tuo turno per una scodella di cibo.
Il documentario racconta di come l’esercito israeliano dal 2023 ad oggi abbia colpito in maniera violenta, radicale, intenzionale e programmata gli ospedali di Gaza e il personale medico e paramedico.
Sentendo le parole di quelle persone, alcune delle quali non sono tornate alle proprie famiglie, ho sentito un’urgenza, una pressione interiore: scrivere, tentare almeno di non rimanere muto di fronte a quell’abisso.
Scrivere per ricordarmi di quello che ho provato guardando il documentario e di quello che non voglio dimenticare di provare tutte le volte che mi parlano di gente comune assassinata.
2. La parola proibita
C’è una parola che sembra in bilico in questi giorni. Mai del tutto pronunciata dai nostri poco rappresentativi leader europei e invece ricorrente nel rapporto di Francesca Albanese relatrice speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati da Israele.
Genocidio
Non è un termine da usare a cuor leggero, perché porta con sé un peso storico e morale immenso.
Ma come possiamo chiamare l’annientamento di un popolo, la sistematica uccisione di civili, la cancellazione programmata e intenzionale di intere famiglie?
3. Ciò che non sappiamo (e non vogliamo sapere)
Noi non possiamo sapere davvero cosa significhi vivere a Gaza. Non lo sappiamo perché le notizie che ci arrivano sono filtrate, edulcorate, piegate a una narrazione che non disturbi troppo, che non faccia risvegliare le coscienze ma piuttosto le tenga in quello stato di annichilimento ansiogeno. Quel torpore cerebrale alla costante ricerca di inutili sedativi d’acquisto, aperitivi e futili passatempi tipici di un occidente opulento e oramai alla fine.
Non lo sappiamo perché la nostra attenzione è catturata da mille distrazioni quotidiane che, guarda caso, il più delle volte hanno come protagonista la contingente necessita di sopravvivenza.
E, soprattutto, non lo sappiamo perché a volte non vogliamo saperlo!
E’ più comodo non sentire, non vedere. Non lasciarsi attraversare dall’esperienza degli altri, sopratutto quando quell’esperienza è fatta di brandelli di carne e detriti, di arti di bambini disseminati nelle strade, di decine di migliaia di cadaveri bruciati o schiacciati sotto le macerie e del dolore dei supersiti in bilico ogni giorno tra una vita di stenti e la morte.
4. L’anestesia dell’informazione
I patinati telegiornali istituzionali ci consegnano immagini sterili, titoli neutri, un linguaggio addomesticato che addormenta le coscienze. Così, per la stampa internazionale quella violenza appare lontana, quasi irreale, e la nostra indignazione resta spenta.
Là muoiono famiglie intere; qui ci preoccupiamo del traffico, delle bollette, di un nuovo smartphone. La distanza non è geografica: è interiore.
ci tengono lontani dalla cruda verità che può risvegliare quell’indignazione sacrosanta che ogni umano dovrebbe provare quando altri umani vengono trucidati in massa.
Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?
Significa chiedere scusa,
chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,
agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate,
alle lunghe crepe sul fianco delle strade,
ai bambini pallidi, prima della morte
e al volto di ogni madre triste,
o uccisa!
Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?
Significa vergognarsi,
del tuo sorriso
del tuo calore,
dei tuoi vestiti puliti,
delle tue ore di noia,
del tuo sbadiglio,
della tua tazza di caffè,
del tuo sonno tranquillo,
dei tuoi cari ancora vivi,
della tua sazietà,
dell’acqua disponibile,
dell’acqua pulita,
della possibilità di fare una doccia,
e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!
Mio Dio,
non voglio essere poeta in tempo di guerra.
Hend Joudah
(tratto dal libro “Il loro grido è la mia voce” Poesie da Gaza)