Viviamo momenti impegnativi e con noi anche i nostri figli.
Mascherine, prescrizioni, limitazioni e paure indotte fanno parte di questi grotteschi giorni che io, come padre, avrei difficoltà a spiegare ai miei figli se fossero più piccoli.
Cerchiamo di galleggiare alla meglio in questo mare di incertezza. L’orizzonte è annebbiato da una foschia densa, dentro la quale si perde anche la speranza per loro di un futuro migliore del nostro presente.
In questo speciale periodo storico nel quale siamo trattati solo come “oggetti biologici da tenere in salute, protetti dal caos creativo della vita proprio come i polli che devono essere sostenuti, prima del loro consumo” (*cit.), sono proprio le menti fresche a subire gli effetti più devastanti.
I bambini sembrano incuranti degli eventi. Ma l’imprinting al quale sono sottoposti lavora in profondità per smontare lo sviluppo delle loro fragili coscienze. Un costante flusso di pensieri, idee e informazioni li trascina dalla prospettiva di libertà per la quale sono nati a una ben più cupa di sottomissione.
I bambini degli anni ‘70
Per noi bambini degli anni ’70 la vita era semplice. Si andava a scuola e si giocava mentre i nostri genitori lavoravano senza occuparsi più di tanto di noi se non nei bisogni fondamentali. Di certo la quotidianità della famiglia non era incentrata costantemente intorno ai figli come succede ora.
Eravamo più randagi, una specie di accessorio amato e indispensabile, ma non il fulcro intorno al quale tutta la famiglia ruota.
Il gioco rappresentava un’attività naturale e istintiva che si avvaleva di strumenti semplici e una gran dose di fantasia.
Quando ero piccolo si giocava con i soldatini e io ne avevo tantissimi soprattutto della seconda guerra mondiale.
Tralasciando l’aspetto poco etico di abituare le giovani menti all’esistenza sconcertante della guerra in cui uomini s’organizzano in maniera strutturata per uccidere altri uomini, quel gioco aveva in sé caratteristiche molto interessanti.
C’era la possibilità per noi nanerottoli di esercitarsi a raccontare storie intorno a quelle mini-statue di plastica con piedistallo. Mi ricordo ancora i lunghi stati di trance durante i quali creavamo battaglie, alleanze e insoliti fortini autoprodotti con oggetti di fortuna. Ore e ore di libero sfogo alle fantasie più sfrenate e originali.
Forse giocando con la guerra in miniatura si esorcizzava quella vera, lontana dalla quotidianità di noi bimbi occidentali di allora. Riuscivamo a separarla in maniera netta dalla vita civile in cui tutto scorreva abbastanza liscio con la prospettiva di un futuro progressivamente vantaggioso e pieno di speranza.
La guerra finta scacciava la paura recondita di poter essere testimoni di una guerra vissuta di cui avevano fatto esperienza i nostri nonni se non i nostri genitori.
Il soldatino Jack
In particolare mi ricordo ancora di Jack, il mio preferito.
Il soldatino Jack era speciale. Rispetto agli altri normali soldatini industriali lui era dipinto a mano. Impugnava un mitra e i colori della sua divisa da marines erano minuziosamente dettagliati.
Mi piaceva portarlo in giro con me, perciò legavo un sottile filo di spago al soldatino trascinandolo per le vie della città. Invece del solito modellino a quattro ruote io mi trascinavo dietro il soldatino Jack.
Attraversando anfratti, pozzanghere di fango e prati erbosi diventava sempre più vissuto. Ogni graffio, macchia di sporco o strato di vernice che se ne andava, rappresentavano ferite in grado di rendere jack sempre più eroico ai miei occhi. E anche agli occhi di tutto il plotone dei soldatini monocromatici.
A volte Jack andava in missione speciale calandosi nella griglia di qualche cantina oscura. Sprezzante del pericolo affrontava il mistero e io mi abituavo all’idea di fare la stessa cosa quando sarei diventato grande.
Nutrire i cuori dei bambini con nuovi Jack
Nelle avventure che costruivo intorno a Jack c’erano racchiusi tutti i miei sogni. C’erano il desiderio di avventura, di conoscere il mondo e di guidare gli altri verso intriganti mete di salvezza e di vittoria.
Avevo riempito quel piccolo pezzo di plastica colorato con gli archetipi ai quali si ispirava la mia giovane mente: l’eroe, il saggio, l’esploratore e il ribelle.
E mentre mi immedesimavo a vivere le peripezie attraverso gli occhi di Jack, quegli archetipi si preparavano a spianarmi il futuro.
Sotto la divisa colorata della seconda guerra mondiale di Jack credo vi fosse un cuore collegato con il mio. Immagino che stessi costruendo il mio avvenire addestrando la mente a raccontare storie che mi piacevano.
Ora quel futuro è arrivato ed è anche grazie a Jack se sono quello che sono, ma i ragazzini della nostra epoca faticano a crescere.
Sono imbavagliati fisicamente e mentalmente da mascherine e cellulari, mentre i pezzi di plastica antropomorfi si trovano raramente nei negozi di giocattoli o su Amazon.
Migliaia di Jack sono rimasti inermi dentro le loro buste di plastica in qualche magazzino dismesso, in attesa che, cuori gioiosi pronti a sognare, possano donargli un pezzo di loro.
Liberiamo i bambini per favore, altrimenti il mondo perderà l’opportunità di salvarsi.
Un Jack rimodernato medita nella posizione del loto, invece di impugnare un mitra.
Potrebbe essere la rappresentazione di adulti che cercano il dialogo e non la competizione, la verità invece del conformismo, la libertà e l’amore invece della paura.
* I soldatini che fanno Yoga sono un’idea geniale del designer Dan Abramson