L’ospedale non era solo un semplice ospedale.
L’ambiente in cui mi trovavo aveva la caratteristica tipica di quegli spazi precari nei quali gli individui s’incontrano senza entrare in relazione fra loro, uno di quei posti che gli antropologi chiamano non luoghi. Un’enorme e labirintica struttura con ristoranti, sale giochi, parcheggi e centri commerciali.
Ero lì per mio figlio, anche se ora non ricordo esattamente la ragione, ma aveva a che fare con la scuola.
Ricordo invece perfettamente l’ambiente pulito con pavimenti chiari, luci fredde e colonne rivestite di marmo, disseminato da cartelli sapientemente illuminati. Un ambiente senza tempo e senza storia, capace di far affiorare senso di precarietà e vuoto nel cuore.
Dopo aver parcheggiato l’auto in uno di quei parcheggi su più piani collegati fra loro da rampe circolari, incontro Chiara, indaffarata come sempre e con quell’atteggiamento tipico delle mamme super efficienti impegnate a risolvere le incombenze della quotidianità con un’abilità che sgomenta la maggior parte degli uomini.
Ci scambiamo due parole riguardo all’organizzazione della giornata, ma a me non sono sufficienti, non capisco cosa devo fare e mi sento perso senza aver ottenuto ulteriori precise istruzioni.
L’assenza di concentrazione sulle cose pratiche mi fa sentire inadeguato nei suoi confronti. Lei forse un po’ infastidita se ne va ed io la ricorro sentendomi sempre più smarrito nel labirinto dell’ospedale-centro commerciale. Mi sento addosso l’accusa ingiusta di non dedicare più tempo a parlare con lei, ma io so che il bisogno di confronto è più mio che suo. E mentre penso a ciò, la perdo di vista.
Corro lungo i corridoi asettici fra gli spazi lucidi e disinfettati nel disperato tentativo di raggiungerla, poi finalmente la vedo dietro una vetrata.
E’ in fila, sta per entrare concitata in una scala mobile. Finalmente riesco ad attrarre la sua attenzione bussando nel grande vetro che ci separa. Attiro il suo sguardo e le faccio cenno di telefonarmi subito al cellulare. Lei glissa l’invito con un sorriso di velato fastidio e con una rotazione dell’indice mi fa capire che mi chiamerà più tardi.
Mi rimane impressa la sua immagine di spalle mentre viene risucchiata dalla folla di gente che scorre sulla scala meccanica. Di lei noto i tacchi, i jeans stretti, i capelli biondi e la bellezza come se fosse la prima volta.
Ora sono completamente smarrito nell’ospedale-centro commerciale.
Perduto e solo, come il protagonista di uno di quei film sugli zombi, in fuga da una città emblematica nella quale l’individualità dell’essere umano è minacciata dal pericolo incombente di conformarsi alla massa senza anima.
Smarrito e completamente solo.
A un certo punto, in questo non luogo di transizione, portale di accesso a una qualche forma di passaggio simbolico o reale, vengo in contatto con la forza, quasi fisica, di un potente stimolo al cambiamento che si manifesta dopo un lungo periodo di soffocamento.
Cambiare consapevolmente è rigenerante e Io quella notte non potevo sognare di essere in un posto più adatto.
Svegliandomi mi rendo conto che forse Chiara non era Chiara.
Mi hanno detto che in sogno le persone che incontriamo, rappresentano noi stessi o una parte di noi.
Forse Chiara era parte di me.
- Era la parte bella di me in fuga dalla condizione attuale nella quale non si rispecchia.
- Era la parte buona di me che sa cosa e come fare.
- Era la parte di me consapevole della verità.
- Era quella parte saggia che sa stare nel mondo ma non è vittima del mondo.
Rappresentava la parte capace di comprendere il significato dell’amore nella sua accezione più alta e misteriosa.
Non è un caso che quella parte, nel sogno, l’abbia interpretata Lei.
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