Resilienza: dal fastidio all’esplorazione di sé.
La parola non la sopporto dai tempi in cui lessi l’interpretazione che dava Pietro Trabucchi in uno dei suoi libri sull’allenamento mentale applicato agli sport di resistenza.
Leggerla o ascoltarla mi ha sempre dato sui nervi in maniera inspiegabile.
Per fortuna mi accompagna la convinzione che ogni emozione negativa, anche la più banale, rappresenta un’utile occasione per conoscere meglio le proprie dinamiche interiori. Così, da buon esploratore dello spirito, ho voluto indagare un pochino dentro di me per capire l’origine di questo fastidio.
Il significato e la genesi del termine resilienza
S’intende, “Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura dinamica, determinata con apposita prova d’urto”, mentre “in psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.” (Treccani)
Elisabetta Frezza, con la quale condivido il fastidio, in merito a questa parola, scrive:
poco tempo fa indicava, dal latino “resilio” (salto indietro, rimbalzo), una proprietà dei materiali, ovvero la loro capacità di assorbire un urto senza rompersi.
Ma poi, siccome suonava bene, è stata martellata ovunque a significare in senso traslato l’attitudine di un individuo, o di una comunità, di adattarsi a una condizione negativa traumatica senza opporre resistenza.
Suonava talmente bene che è diventata una parola di governo quando Super Mario Draghi l’ha inserita in gran spolvero nel P.N.R.R. (Piano nazionale di ripresa e resilienza).
Il significato originale spiega in parte la posizione dei detrattori del vocabolo. Indica l’attitudine di un oggetto ad assorbire l’energia di un urto contraendosi e di riassumere la forma originaria una volta sottoposto a una deformazione.
La mia repulsione è nei confronti dei frutti generati dall’ atteggiamento resiliente
Indagando ho scoperto che l’ostilità origina da una distonia tra i miei valori e le caratteristiche del prodotto finale auspicate dal processo di resilienza. La qualità che viene declamata come positiva, per individui o gruppi, attraverso tale processo è quella di assumere la forma originaria dopo l’evento traumatico.
Questo sintetizza una chiara esortazione da parte di chi la esprime:
- qualsiasi cosa succeda di spiacevole, traumatico e negativamente impattante nella tua vita, sii resiliente.
- Torna come prima.
- Ricomponiti.
- Resisti e resisti e resisti.
Come essere umano il tuo scopo resiliente è quello di ritornare a essere lo stesso di prima, qualsiasi tornado attraversi il tuo cammino.
Sopportare a tutti i costi, prendere schiaffi e mantenere il solito sorriso, essere colpiti e ignorare la possibilità di cambiamento sono le prerogative dei resilienti così auspicati dagli sponsor di questa modaiola espressione.
Le ragioni per non usare il termine resilienza
Ecco il punto.
Per me l’uomo e la donna non sono nati per tornare ad essere come prima dopo lo scontro con l’esperienza. Sono venuti al mondo per evolvere. Poiché se l’Homo sapiens fosse stato resiliente, vivrebbe ancora nelle caverne con la clava a tirare i capelli alla donna sapiens (per buona pace delle neo femministe).
Ragione numero uno.
Dal punto di vista sociale, citando di nuovo Frezza, il popolo non la dovrebbe utilizzare perché il vocabolo è finalizzato a “…convincere la gente che la virtù risiede nel saper sviluppare un indefinito spirito di adattamento, in modo che lo sforzo sia rivolto sempre e solo verso se stessi: non deve essere contemplata l’opzione di contrastare e superare un cambiamento, nemmeno quando questo si fondi su un sopruso.”
Quindi tu, cittadino comune, se non vuoi adattarti alle situazioni negative senza opporre resistenza, in silenzio essendo immutabile a te stesso, prendi le distanze dalla resilienza.
Così eviterai il rischio di subire passivamente, sopendo lo spirito critico.
Ragione numero due
Dal punto di vista psicologico l’individuo non dovrebbe usarla poiché essa supporta un recondito atteggiamento di immobilità.
Trabucchi scrive che, in campo psicologico la persona resiliente è l’opposto della persona facilmente vulnerabile dando a ciò un significato positivo. Io, in questi anni di coaching ho notato che i risultati migliori, individuali e di team, si raggiungono proprio andando a osservare e ad accogliere la vulnerabilità che ci contraddistingue.
Se manchi di assimilare, integrare e metabolizzare impedisci a te stesso di cambiare ciò che è possibile cambiare, accettare ciò che va accettato e lasciare fluire ciò che non riesci ad arginare.
Ragione numero tre
C’è anche una controindicazione pratica e divertente all’uso del termine resilienza.
Se cadi e ti rialzi, cadi e ti rialzi, cadi e di nuovo ti rialzi sempre nello stesso punto, sempre nella stessa posizione, in un loop immutabile e senza fine, non sei un osso duro resiliente.
Sei una pecorella del presepe!
Conclusioni
La resilienza come capacità di adattarsi a una situazione negativa opponendo una resistenza passiva e priva di metamorfosi adattiva, è una trappola per la mente.
- Io desidero trasmutare e trascendere ogni ostacolo o difficoltà.
- Fuggo dallo status quo e mi prendo la responsabilità degli accadimenti anche quando appaiono frutto del caso.
- Non voglio resistere e contrastare… Io accolgo la vita!
L’accoglienza è molto meglio della resilienza.