#iorestoacasa scene reali di lock down all’italiana
Le pareti di un appartamento di 136 metri possono diventare improvvisamente troppo spesse e opprimenti. Una famiglia di cinque persone e un gatto può trovarsi in difficoltà, se è costretta a viverci rinchiusa per molti giorni.
La tua dolce casa, il posto che avevi creato per ritrovare te stesso, dove avevi curato l’arredamento, i colori, gli spazi su misura per il tuo rilassamento, si trasforma improvvisamente in un co-working forzato.
L’attività di vendita telefonica di tua moglie, la didattica a distanza dei tuoi figli, con il coro di voci degli insegnanti che dispensano in ogni momento interrogazioni e lezioni dai vari device, contribuiscono a ristabilire lo stress che sembrava evaporato nei primi giorni della clausura.
Anche il gatto ci evita e vomita in preda all’esaurimento nervoso. Averci tra i piedi tutto il giorno lo destabilizza, abituato com’era a vederci andar via di mattino e tornare alla sera, ai tempi del pre-virus.
Noi genitori viviamo il lavoro a distanza con rinnovato vigore, facendo più ore, con più accanimento. L’efficienza professionale sembra mossa da un malcelato senso di disperazione interiore.
Lo facciamo per compensare la mancanza di evidenze rassicuranti sui prossimi passi del governo?
Oppure per mantenere il contatto con la speranza di un futuro lavorativo che si perde, invece, nella nebbia dell’incertezza?
O semplicemente perché abbiamo la vana illusione che il cambiamento sociale al quale siamo destinati possa essere rallentato tenendoci aggrappati con unghie e denti alla dimensione che l’ha generato?
Reclusione forzata
Mentre cucino mi faccio queste domande. Mi distraggo e mia moglie s’impossessa di una stanza da letto per rispondere alle incessanti chiamate dei clienti, cercando di evitare il poco professionale rumore di padelle e la voce in sottofondo di Antonino Canavacciuolo dalla TV.
Master Chef, uno dei programmi più inutili della storia di una televisione ancora più inutile, è fra i preferiti dei miei figli che ci si incollano tra una lezione on-line e l’altra.
E’ proprio vero che non si è mai profeti in patria. E Tanto meno in famiglia dove il divario generazionale evidenziato anche nei gusti televisivi si può solo accettare, evitando di chiedersi dove si è sbagliato.
Non sapendo rispondere alle domande sopra, dico tra me e me: “Sei ridotto male!”
Tu, che hai sacrificato gli abbondanti spazi domestici del tempo in cui la figliolanza era un numero dispari inferiore al tre, ora ti adatti umilmente a ciò che rimane del soggiorno. Allestisci su uno dei due divani il tuo ufficio d’emergenza con la nuova divisa da lavoro: pigiama scozzese e pantofole di feltro.
Mentre L’alienante (seppur benedetto in questi tempi) lavoro da casa, permette a chiunque di sconfinare in quella parte di vita che avevi riservato alla tua intimità famigliare, ti accorgi che l’anglofono smart working è un termine errato.
Non c’è nulla d’intelligente nel lavorare di più in uno stato di reclusione forzata. E contemporaneamente ti accorgi anche della tua condizione di criceto.
Siamo Come criceti da laboratorio
… e lo eravamo anche prima del Covid.
Questi 136 metri intensamente vissuti in esclusiva per più di due mesi hanno acceso in me una nuova forma di consapevolezza. Ho ristrutturato il mio concetto di libertà, allargandolo alla ricerca di un significato da dare alla vita.
Mi sono reso conto della pericolosa e sistematica opera di assoggettamento a uno stile di vita post-umano incominciato ancor prima dell’esplosione pandemica.
Ho accettato il senso di ribellione alle decisioni più o meno discutibili del sistema nel suo tentativo orrendo d’isolare individui e famiglie.
Ho compreso l’assurda opera sociale di barattare relazioni umane, fondate sui valori di fratellanza, giustizia e condivisione, con assurde regole di protezione dalla paura…
E mi sono chiesto:
Che cosa possiamo fare individualmente per rivendicare la nostra naturale e umana esigenza di libertà interiore?
Viktor Emil Frankl, il padre della Logoterapia, aveva imparato a essere libero persino dentro a un campo di concentramento nazista sostenendo che
“La vita già rappresenta sempre, da sola, una specie di auto-esplicazione dell’esistenza personale”.
La vera realizzazione del sé richiede di adeguarsi a ciò che il mondo ci chiede.
In che modo?
- Realizzando compiti
- Rispondendo a esigenze
- Attuando valori
- Creando significati
Per sentirti intimamente libero e fare tutto ciò, 136 metri quadrati sono sufficienti.
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