Qualcuno mi ha chiesto qual è la motivazione che alimenta l’attitudine a dedicarsi al coaching.
Quando ho iniziato molti anni fa a studiare PNL, frequentare corsi, camminare sui carboni ardenti, piegare tondini di ferro con il collo (*) e affiancare coach più esperti, mi impegnavo molto sia economicamente sia in termini di tempo. Dedicavo alla mia formazione molti week end e rinunciavo a vacanze, viaggi e tempo libero.
Lo slancio e la passione con i quali ho affrontato il mio percorso di crescita nel coaching era invidiabile. Amici e parenti mi hanno sempre considerato strano per questa mia inclinazione a esplorare le varie possibilità di progredire.
In alcune circostanze l’ostinata volontà di miglioramento è alimentata da una forte frustrazione per risultati mancati e dal desiderio di amarsi e accettarsi più intensamente. Credo fossero questi i propellenti anche nel mio caso, nonostante non lo riconobbi razionalmente nelle prime fasi.
A quei tempi mi sentivo un precursore e vivevo questa passione un po’ come un eroe dal cuore impavido, un eletto in missione per conto della provvidenza e un guerriero del cambiamento a tutti i costi.
Il motivo di una tale determinazione sembrava molto chiaro in me, invece era completamente e inconsapevolmente sbagliato.
Pensavo, con un senso di malcelata supponenza, che la motivazione a incitarmi verso il mondo del coaching fosse il desiderio di aiutare gli altri.
Aiutare gli altri.
Mi illudevo che la volontà di fare stare bene le persone (sostenendole nel raggiungere obiettivi) fosse il principale fattore in grado di stimolare e supportare quella tenace aspirazione a diventare Coach.
Sembrava una bella storia da raccontare a me stesso per adoperarmi a far superare situazione complicate, migliorare relazioni o semplicemente favorire la respirazione e mettere in ordine i pensieri altrui.
Ma stavo raccontandomi una storia falsa, seppur costruita su ottimi presupposti.
L’aspetto peggiore della faccenda è che la raccontavo a tutti. Dichiaravo:
“il coaching è il modo unico e personale di esprimere il mio talento di guida, essere rilevante nel migliorare la vita delle persone e quindi dare un contributo alla comunità”.
Lo dicevo credendoci e, il più delle volte, ero creduto. Tutto ciò progressivamente tendeva a rafforzare l’autoinganno.
Passavano gli anni e, come coach, sperimentavo successi e sperimentavo insuccessi. A volte mi sembrava di essere un dio del cambiamento, a volte non riuscivo nemmeno a condizionare me stesso a non bere troppi caffè o a diminuire il lamento nel dialogo interno. Ma tiravo dritto imperterrito continuando a raccontarmi la favoletta del buon samaritano, del talento e della missione personale.
Mentre mi bevevo la subdola storiella continuavano successi e insuccessi. Alternavo incontri in cui la relazione di coaching superava di gran lunga le aspettative dell’esploratore che si era affidato a me. Ad altri, fortunatamente meno frequenti, che sfumavano in un nulla di fatto.
In questi casi la frustrazione era mitigata dal fatto che ho sempre liberato le persone dopo un massimo di 4/5 incontri. Sempre. Sia quando non si riusciva a scorgere la meta nemmeno in lontananza, sia quando l’obiettivo era centrato e l’esploratore avrebbe volentieri allungato il processo per consolidare il risultato.
La dipendenza non è il fine.
Il coaching non crea dipendenza, aspira all’autonomia e alla volontà indipendente, perciò quanto prima si cammina con le proprie gambe, meglio è. Il coaching si delinea come un’interazione che tende alla liberazione, alla estrazione delle risorse innate degli individui. Quando risulta inefficace la responsabilità è del coach, mentre quando si raggiunge lo scopo il merito è decisamente del coachee.
Se il cambiamento è la condizione naturale delle cose anche il mio modello di coaching è evoluto nel corso del tempo.
L’esperienza, gli incontri con percorsi più profondi, la progressiva diffidenza verso il monopolio della razionalità e forse l’età matura mi hanno messo in contatto con approcci più spirituali e così cambiando il modello mi sono reso conto della bugia che ho alimentato negli anni.
Ho potuto notare anche quanto aggressiva e presuntuosa fosse l’idea di aiutare gli altri.
Questa visione nasconde una sorta di delirio divino di onnipotenza e oggi, forse a causa di una immeritata saggezza geriatrica, credo sia l’esempio il modo davvero efficace di ispirare a nuovi e più funzionali comportamenti.
Naturalmente lo spirito di servizio esiste nel coaching ma non deve sfociare in una ostinata operazione di salvataggio da muscoloso ed egoico supereroe della mente.
Le persone desiderano veramente essere aiutate da un Coach?
Molte volte nel passato e, oggi ancora più di prima, incontro persone che, pur dichiarando razionalmente di voler cambiare affidandosi al mental coach, a un livello profondo non ne hanno alcuna intenzione.
Replicano costantemente gli stessi schemi di pensiero e con un’abilità verbale sconcertante, guidati da una mente ingannevole, dichiarano di essere aperti al nuovo, invece sono più ancorati che mai ai loro modelli e alla propria realtà autoprodotta.
E questo è perfettamente naturale: le persone spesso non vedono le prigioni mentali che hanno costruito nel tempo.
Siamo fatti così. Il cervello ci protegge dalla fatica di creare nuove sinapsi per un atavica necessità di risparmio energetico. Affrontare aree di indeterminazione prevede sempre uno sforzo.
Proprio per questo tendiamo a schivare il cambiamento volontario e siamo portati a soffocare ogni grido di libertà, anche quelli che provengono dal cuore.
Poniamo tutta la nostra attenzione su cosa succede all’esterno, mancando il compito ben più importante d’indagare e gestire ciò che succede dentro di noi. Ci esoneriamo dalla responsabilità di cercare le opportune risorse di cui siamo dotati dalla nascita.
Facciamo di tutto per alleviare la frustrazione e giustifichiamo sapientemente i risultati insoddisfacenti nelle varie aree in cui agiamo.
Chi può dire di non aver vissuto un loop del genere almeno una volta nella vita? Io consapevolmente tante volte e chissà quante in maniera inconsapevole.
È sempre più comodo lamentarsi, cercare colpe, illudersi, invece di guardarsi allo specchio chiedendosi ad esempio:
- Le scuse di cui mi nutro sono orientate al fare o al non fare?
- i miei atteggiamenti portano all’unione o alla separazione?
- sono alla ricerca del modo migliore di amare oppure vivo nella paura?
Se la risposte sono sincere aprono la strada immediatamente a una soluzione.
Ma nelle condizioni di cui sopra le persone non vogliono soluzioni, non hanno alcuna intenzione di farsi aiutare, semplicemente vogliono un’altra prova provata che il fallimento della loro evoluzione è inevitabile. Forse non è ancora il momento o forse non lo è proprio.
Allora cosa mi spinge veramente verso questo impegno?
Grazie all’esperienza e a un sincero lavoro interiore, comprendendo che la parte più vera di me non aspirava ad aiutare gli altri, ho capito soprattutto l’inutilità di stereotiparsi a questo movente.
Semplicemente il coaching mi dà gioia, mi fa entrare a contatto con i segreti immutabili della vita e così mi sento più vicino alla mia anima. Più sono assidui i momenti di contatto con Lei, più mi avverto come parte del tutto.
Entrando in sintonia con l’atteggiamento giocoso e profondo del coaching, aumenta l’abilità a rispondere (respons-abilità) della mia realtà e di conseguenza a comprendere quella degli altri.
Il divertimento e il senso di appagamento sono i fattori principali che mi stimolano a percorrere questo cammino.
L’efficacia della interazione di coaching è proporzionale alla consapevolezza con la quale mi metto al servizio, prima di tutto di me stesso. Affrontare insieme alle persone le dinamiche relazionali e comunicative dei processi umani crea nuovi modi di pensare in loro (e naturalmente in me). Di conseguenza cambiano i comportamenti e inevitabilmente si ottengono nuovi effetti per entrambi.
Il coaching mi fa stare bene e mi fa amare la vita più di ogni altra occupazione.
Se vi è un briciolo di efficacia nel mio modo di fare coaching risiede in questo campo di energia che, se è ben alimentato, rende possibile l’aiuto alle persone anche senza esserne il fine.
In definitiva cos’è il coaching?
Il coaching è uno scambio bidirezionale di esperienze, sensazioni e aperture illimitate verso nuove, eccitanti prospettive.
Concludo citando una frase di Paolo Manocchi, un allenatore della mente che ammiro molto:
il coaching è un processo auto-generativo di prestazione
e come una scintilla in un camino pieno di buona legna, produce un fuoco che dona calore e luce nel freddo inverno della nostra insoddisfazione.
*(esperienze metaforiche ormai dimenticate e derise, ma con un forte impatto sul cambiamento)
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